lunedì 29 luglio 2024

Un uomo aveva un campo...

C’era un uomo che aveva un campo.
Il campo era rigoglioso e tutto quello che l’uomo piantava cresceva a dismisura, perché l’uomo ne aveva molta cura e lo innaffiava tutti i giorni abbondantemente.
Tutti nella regione ammiravano quel campo e il lavoro che l’uomo faceva per mantenerlo sempre fertile.
Un giorno sopraggiunse una grande siccità e venne meno l’acqua nelle sorgenti da cui quell’uomo attingeva per innaffiare il campo, tanto che il campo cominciò a seccare a vista d’occhio.
L’uomo allora cominciò a disperarsi perché non poteva più bagnare la terra del campo.
Un giorno passava di lì un vecchio cercatore d’acqua a cui avevano raccontato di quell’uomo e del suo campo che stava seccando.
Così andò da lui e gli disse:
“Perché non provi a vedere se sotto il tuo campo c’è l’acqua?”
“E come faccio a saperlo?” rispose l’uomo.
“Io so come si fa, e ti posso aiutare in cambio di un piatto di minestra e di un pane da portare via quando riprenderò la mia strada.”
L’uomo rimase a pensare un po', titubante, perché sperava che la siccità finisse e tornasse l’acqua e lui non fosse costretto a sprecare una parte del suo campo per scavare il pozzo.
E disse al vecchio rabdomante:
“Non ho bisogno di scavare un pozzo qui, perché la siccità prima o poi finirà e l’acqua tornerà.”
Allora il vecchio cercatore d’acqua lo salutò e se ne andò via.
Ma la siccità non terminò e il campo dell’uomo era ormai allo stremo: le zolle di terra erano così aride che il vento le sbriciolava e se le portava via.
L’uomo, disperato, ripensò alle parole del vecchio rabdomante e, davanti allo spettacolo desolato di quello che una volta era stato il suo campo verde e rigoglioso, si disse:
‘Farò scavare il pozzo, anche se questo mi costa dover rinunciare ad un pezzo del mio campo.’
Così fece chiamare il vecchio e lo pregò di cercare per lui l’acqua sotto il suo campo.
Il vecchio arrivò, cercò con la sua bacchetta l’acqua, la trovò e in quel punto fece scavare il pozzo.
L’acqua zampillava fresca e abbondante, tanto che bastava per innaffiare il campo di quell’uomo e anche quelli vicini.
Allora l’uomo, pieno di gioia, non solo diede al vecchio quello che aveva chiesto, ma lo ospitò nella sua casa fino a che il vecchio volle e ne ebbe bisogno.
Un giorno venne il tempo per il vecchio rabdomante di andare. Mentre si stavano salutando, l’uomo gli disse:
“Ma perché non ho dato ascolto prima alle tue parole e non ti ho permesso di cercare l’acqua! Avrei potuto risparmiarmi giorni e giorni di siccità e le mie piante non avrebbero avuto a soffrire così tanto.”
E il vecchio gli rispose:
“Perché di fronte alle difficoltà l’uomo sceglie sempre la via che gli sembra la più facile e veloce. E invece bisogna avere il coraggio di rischiare, perché solo se si scava a fondo e si rinuncia a qualcosa si trova la risposta ai propri bisogni e alle proprie domande. La risposta c’è sempre ma, come quell’acqua che ora hai nel pozzo, non la puoi raggiungere se non scavi in profondità, altrimenti resterà sempre nascosta.”

sabato 27 luglio 2024

Lectio Divina su 2Pietro 1,2

Grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro.” 

Si è sempre paragonata la vita ad una strada da percorrere.
La fede è Via alla Conoscenza dell’Essere Trascendente e Immutabile. È vivere il qui ed ora con la certezza che c’è Qualcuno che non solo mi conosce sin dal momento del mio concepimento (“Poiché sei tu che hai formato le mie reni,che mi hai intessuto nel seno di mia madre.”, Sal 139,13), ma che anche mi tiene nel palmo della sua mano.
Chi di noi non vorrebbe conoscere meglio sé stesso? Capire chi è, perché è qui, come deve rapportasi al mondo che lo circonda?
Chi di noi non vorrebbe andare al nocciolo delle cose, all’essenza della realtà?
La fede è questo: fidarsi delle risposte che, a queste domande, ci da Dio.
Null’altro.
Di certo, noi siamo creature, non il Creatore, e non possiamo in alcun modo entrare appieno nella conoscenza della Verità perché, parafrasando la storia narrata da Agostino, facciamo come quel bambino di cui ci racconta.
Agostino stava riflettendo sul mistero della Trinità camminando sulla riva del mare. Ad un tratto vide un bambino che con un cucchiaio prendeva l’acqua del mare e la metteva in una piccola buca scavata nella sabbia. Così chiese al bambino: «Cosa stai facendo?». Il bambino rispose: «metto tutta l’acqua del mare nella buca!». Agostino rise e disse: «Pretendi forse di svuotare il mare così con un cucchiaio così piccolo?». E il bambino disse: «E tu pretendi forse di fare entrare un mistero tanto grande, come quello della Santissima Trinità, in un cervello piccolo come quello di voi uomini?». Il bambino scomparve.
Noi uomini possiamo (e dobbiamo!) avere il desiderio di conoscere la verità su tutto ciò che esiste, ma ci dobbiamo fermare a quello che riusciamo a percepire più con il cuore che con la mente.
Il Mahatma Gandhi, a chi gli chiedeva se aveva raggiunto la conoscenza della verità, rispondeva che il 100% della verità per lui sarebbe stata quella avrebbe raggiunto al termine della sua vita.
Non importa quindi quante cose della realtà di Dio (e quindi su di me) avrò conosciuto, ma è importante il fatto che avrò avuto il desiderio di conoscere la Verità. E sarà Dio stesso a darmi una conoscenza della sua verità adeguata alla mia possibilità di conoscere e capire.
Ricercare la conoscenza di Dio è condizione necessaria per la vita di fede, ed dono da richiedere, per noi e per gli altri, nella preghiera (Col 1,9-10).
Dio, infatti, si rivela a noi perché noi possiamo essere rivelati a noi stessi.

mercoledì 24 luglio 2024

Lectio divina su Es 3,1-6

"Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di 
Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio."


Dio appare "oltre il deserto", cioè oltre il luogo della purificazione dalle pesantezze spirituali (e fisiche) della quotidianità. Non perché non bisogna vivere la vita di ogni giorno (Mosè attraversa il deserto 'per lavoro') ma perché bisogna servirsene, non servirla.
Mosè ha una motivazione: vuole vedere cosa sta succedendo. Senza una motivazione chiara dentro di noi (di natura psicologica, spirituale, umana) non c’è cammino di alcun tipo; ogni cosa resta sempre allo stesso posto e noi restiamo sempre al punto di partenza. Se vogliamo incontrare Dio, l’Uno, l’Assoluto, fare un’esperienza spirituale, dobbiamo volerlo: Dio non ci impone mai niente, non manipola le nostre coscienza e la nostra anima. Anche perché la strada che ci chiamerrebe a fare è spesso aspra, piena di roveti che non sempre ardono ma spesso restano aridi e secchi, come la nostra anima. Perciò vuole che ci prendiamo le nostre responsabilità.
Solo a quel punto Dio chiama Mosè, che non tentenna, non si pone domande inutili, ma risolutamente (Lc 9,51) risponde: Eccomi! Cioè: sono proprio io e sono qui, davanti a te, pronto ad ascoltare e a prendermi la responsabilità di ciò che vorrai dirmi e farmi fare.
Non ti avvicinare!” urla la voce dalle fiamme. “Togliti i sandali dai piedi, perché questa è terra santa!” Per essere pronto ad ascoltare Dio, Mosè si deve togliere i ‘sandali’. In lingua ebraica il termine ‘sandalo’ significa ‘chiudere, stringere’, quindi il comando di Dio significa: liberati da tutto ciò che ti costringe, ti tiene chiuso, legato alla tua terra, perché la terra che stai calpestando non è la tua terra, ma è la terra di Dio, è terra santa. E la terra di Dio è fatta di altre leggi, di altri modi di camminare; avventurarsi per la terra di Dio non ha niente a che fare col calpestare la terra degli uomini.
Ma chi è questo ‘dio’ che sta parlando a Mosè? Egli stesso si presenta: sono colui che ha guidato i tuoi padri, le generazioni che ti hanno preceduto, da cui tu discendi e di cui stai continuando la storia.
Mosè capisce a questo punto che non è un Dio sconosciuto, ma è una presenza iscritta nel suo DNA, è colui che l’ha fatto essere quello che è.
Egli è Mosè perché c’è stato Qualcuno che gli ha dato un’anima, quella sua propria anima, che l’ha fatto diventare lui e non un altro.
Mosè ha potuto identificarsi come Mosè perché ha un’identità; e quell’incontro con Dio gli mostrerà qual è questa sua identità, finora rimasta nascosta a lui stesso.
E Mosè, cosciente che quell’incontro sta rivelando Dio a lui e quindi lui a sè stesso, non può che velarsi il volto, cioè mettere da parte il Mosè che ha finora conosciuto. E, tremando di una paura umana, attendere che Dio gli parli, gli riveli chi è il vero Mosè, qual è la sua missione in mezzo agli uomini.
Per essere veramente uomini dobbiamo dimenticare il noi stessi che conosciamo, e aspettare che l’Uno, l’Assoluto, si disveli a noi e ci sveli la nostra vera identità.

(Questo post è di soli appunti. Una stesura più chiara abbisogna di maggiore riflessione e possibilmente dell'apporto -gradito- delle vostre riflessioni) 

domenica 21 luglio 2024

Coltiva la vita, anche per gli altri

"Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose." (Mc 6:34) 


Spesso la gente non è cattiva, anche la peggiore.
È che nessuno gli ha mai detto che si può vivere diversamente e stare meglio.

venerdì 19 luglio 2024

Le lacrime di fra Dulbino e la polvere dell'anima

Questo post fa parte della serie di racconti di fra Dulbino, personaggio inventato come fraticello tra i primi compagni di Francesco d'Assisi. Attraverso le sue storie, si racconta il significato della vita semplice e vicina a Dio di colui che, per le sue stimmate, fu detto un altro Cristo.

Era piovuto fino a pochi minuti prima, acqua mista a nevischio che aveva inzuppato ogni cosa. Ma ora le nuvole si stavano sciogliendo e un accenno di tepore andava a riempire l'aria.
Quella tiepidezza unita allo sciabordio dell'acqua contro la riva del lago favoriva il cullarsi come in un sonno.
A volte nostro fratello corpo ha le sue esigenze e bisogna essere indulgenti. E poi non era forse Dio che ci stava facendo quel dono?
Rimasi a fissare l'acqua che andava acquietandosi: le onde perdevano sempre più la loro spuma e si abbassavano d'intensità. Grandi uccelli giocavano tra i raggi del sole che filtravano tra le nuvole residue che ancora coprivano il cielo.
Eravamo ormai da tre giorni fermi a Luvino e rivedendo le persone della mia infanzia, ascoltando i loro ricordi, un senso di nostalgia mi stava riempiendo. Come quando davanti ad un camino acceso gli odori ti trasportano in mondi dove non sei mai stato ma dove capisci che saresti a tuo agio.
Io invece quei mondi li conoscevo bene: erano la mia infanzia, le corse tra le case basse con gli altri ragazzi, l’adolescenza, il profumo dell’acqua dolce e della resina dei pini.
Ero da solo in riva al lago, dove il paese finisce e la strada curva attorno allo sperone di roccia.
Mio fratello Giovanni, dove sarà adesso? E i miei genitori? Cammineranno ancora su questa terra o sorella morte li avrà già chiamati e portati davanti a Dio?
Gervasio, compagno di giochi di Giovanni, mi aveva raccontato di quando la mia famiglia umana aveva lasciato Luvino (*) per andare in cerca di fortuna al di là delle montagne. Ma dalle sue parole avevo capito che non volevano più vivere lì dove ogni pietra e ogni albero gli ricordavano di me, che li avevo lasciati per seguire i pazzi del pazzo Francesco.
Forse Gervasio aveva ragione? Siamo pazzi a camminare scalzi e morire di fame e di freddo… E per cosa poi? Per essere insultati dalla gente e scacciati dai preti a cui ricordiamo con carità e dolcezza la loro grande dignità che spesso calpestano per andare dietro al mondo e alle sue pompe, per usare le parole del Santo Evangelo?
Però poi penso che camminiamo scalzi e moriamo di fame e di freddo anche per poter annunziare liberamente e con verità quelle Sante Parole per cui tanti prima di noi morirono anche  corporalmente oltre che nei desideri. Per essere soli col Solo quando preghiamo, senza niente e nessuno che si frapponga tra noi e il Nostro Signore e Padre Dio.
Quanti pensieri! Quanti macigni nell’anima e sul cuore! Quanta pesantezza nel cammino dello spirito!
Spesso mi ero ritrovato a vivere queste sensazioni, ad avere questi pensieri, e ogni volta mi ero visto come in un baratro, da cui non vedevo più la luce dell’uscita, in cui sentivo solo voci di condanna, di miseria, di scoraggiamento.
E ogni volta era stato frate Francesco a raccogliermi e, dolcemente, a riportarmi sulla strada.
Vedevo poco distante frate Silvestro che con fatica cercava di alzarsi da terra, aggrappandosi all’albero cui finora si era poggiato per dare un po’ di riposo a suo fratello corpo affaticato dagli anni.
Gli corsi incontro e gli porsi una mano per aiutarlo. Poi quando vidi che non riusciva a farsi forza sulle gambe, perché la sua età gliele aveva infiacchite (ma anche gli sforzi, i digiuni, i lungi cammini per spostarsi da una paese all’altro), allora lo abbracciai e feci delle mie gambe le sue, fino a che non fu in piedi.
“Grazie fratello Dulbino, bastone della mia vecchiaia!” mi disse col suo sorriso semplice e disarmante e i suoi occhi chiari.
Lui, di cui frate Francesco diceva che parlava con Dio come l’uno amico dell’Altro, diceva che ero il bastone della sua vecchiaia! Quale gioia invase l’anima mia!
Per un attimo i cattivi pensieri lasciarono la mia mente, ma poi tornarono ad assalirla e a spingerla giù nel pozzo nero dell’oscurità.
Sapevo che tutto questo era lavoro di colui che è persin meglio non nominare, che allontana dalla luce per nascondersi nel buio della menzogna.
“Cosa c’è, fratello? Ho visto turbato il tuo volto, prima, mentre fissavi l’acqua e ho immaginato che innumerevoli pensieri attraversavano la tua mente e la tua anima” mi chiese Silvestro.
Io rimasi a guardare il niente davanti a me. Quindi risposi:
“Hai ragione, fratello Silvestro. Da quando sono qui a Luvino, ai pensieri che già affollano la mia mente sulla nostra vita, il nostro peregrinare, si aggiungono i ricordi e le domande sulla mia famiglia di origine. È male tutto ciò?”
“Dulbino, fratello e figlio carissimo, chi di noi non ha o non ha avuto questi pensieri? Chi può dire di essersi lasciato totalmente alle spalle la sua vita precedente? Io stesso quante volte ripenso a quando ero sacerdote nel secolo e non conoscevo ancora la santa povertà? A quando ho accusato, ingiustamente, frate Francesco di non avermi pagato le pietre per ricostruire San Damiano ed egli ha risposto ricoprendomi di monete d’oro e sorridendomi con compassione? Non dimenticherò mai quello sguardo di misericordia… Ed è stato quello sguardo che mi ha fatto capire come io, sacerdote e per di più anziano, fossi ancora attaccato alle cose del mondo! Ed ora eccomi qua, costretto a farmi aiutare da te per rialzarmi da terra. Ma è proprio questo che ho imparato: nessuno di noi è solo, nessuno può dire di essere sufficiente a sé stesso, anche se giovane e forte. Ci sarà sempre qualcosa che ci impedirà di rialzarci quando cadiamo. Abbiamo tutti bisogno l’uno dell’altro e, soprattutto, abbiamo bisogno tutti di Dio.”
E nel dire così, frate Silvestro alzò gli occhi verso il cielo e i suoi occhi limpidi si riempirono di lacrime.
Come dicono le Sante Parole della Scrittura, nulla viene se non voluto da Dio, e quelle parole erano proprio per me.
Nessuno mai avrebbe cancellato, ora o in seguito, quelle tenebre dell’anima mia, se non Dio. Ma avrei sempre trovato qualcuno a cui aggrapparmi.
Un rumore di ciottoli smossi ci fece girare e la figura piccola e smagrita di frate Francesco ci venne incontro.
“Fratelli! Finalmente vi ho trovati! Sapevo che tu, Dulbino, non potevi stare lontano dalle acque del tuo lago!”
Quindi andò verso frate Silvestro, gli si inginocchiò dinanzi e gli baciò le mani.
“No, fratello! Perché?” protestò l'anziano frate.
“Lo sai perché, fratello Silvestro. Perché dell'altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che voi sacerdoti ricevete e che voi soli amministrate a noi piccole creature.” **
Poi Francesco si alzò e continuò:
“Di cosa stavate parlando? Delle cose di Dio?”
“Delle cose degli uomini, frate Francesco, e quindi delle cose di Dio” rispose frate Silvestro.
“E' vero fratello, non c'è niente al mondo che non sia anche di Dio, perché tutto e tutti siamo sue creature.”
Gli occhi di Francesco saettavano da Silvestro a me e tornavano a lui.
“Cosa turba il tuo cuore, fratellino?”
Io rimasi in silenzio; non sapevo da che parte cominciare a raccontargli ciò che passava nella mia anima.
E allora frate Silvestro prese a dire:
“Il passato, i dubbi, le incertezze macerano la mente e il cuore del nostro giovane fratello. Gli ho detto che è umano tutto ciò, e ora aggiungo che tutto si può in Colui che ci da’ la forza.”
“Certamente, Silvestro! Onoro la saggezza che alberga in te e che ti ha suggerito queste parole! Noi non siamo soli” disse poi volgendosi verso di me “ma in ogni cosa abbiamo un Padre che conosce ogni capello del nostro capo. Non vuoi che conosca anche i nostri pensieri, per quanto profondi e cupi possano essere?”
Francesco pose una mano sulla spalla di Silvestro e l'altra sulla mia. E continuò, volgendosi a me:
“Dio non cancella la tua storia, ma non permette che il suo ricordo ti faccia del male; basta che ti affidi a Lui, che Glielo chiedi.”
Gli occhi di frate Silvestro sembravano quelli di uno che avesse la febbre alta, ma capivo che erano infiammati d'amore per il Signore. Pareva che il suo spirito, alle parole di Francesco, avesse cominciato a volare, a cercare la gioia che da’ la presenza dell'Altissimo.
Frate Francesco raccolse le sue mani sul petto, come l'avevo visto fare tante volte quando pregava. Sembrava volersi abbracciare. Ma poi capii che sentiva invece l'abbraccio di Gesù al suo povero corpo e alla sua povera anima. E fissandomi disse:
“Lasciati amare da Dio, Dulbino, fratello carissimo! Lascia che Dio penetri nella tua vita, abbatta le barriere che hai messo tra te e Lui e operi in te. Chiediglielo sempre, con le lacrime, tra le suppliche, in ginocchio. ChiediGlielo e Lui ti esaudirà, e allora tutta la tua vita sarà nelle Sue mani e tutto sarà nuovo, tutto avrà un nuovo inizio. Egli l'ha promesso: ti darà un cuore nuovo! Come l’ha dato prima di te a tutti i suoi figli! Dio rispetta le nostre scelte, ma sta alla porta e bussa: aspetta che noi Gli apriamo e Gli permettiamo di fare nuova ogni cosa. Lasciati amare e nulla ti apparirà più come una montagna insormontabile, come una notte buia e senza stelle ad indicarci il cammino.”
Poi venne da me e mi abbracciò, e io sentii come catene cadere dentro di me, una fiamma bruciarmi nell'anima e contemporaneamente un soffio d'aria fresca spazzare la pesantezza del mio passato.
“Lasciati amare da Dio, Dulbino. Ed Egli sarà la risposta ad ogni tua domanda e la tua forza per sempre.”
I miei occhi cominciarono ad appannarsi e vedevo Francesco e Silvestro come dietro una parete d’acqua: erano le lacrime che scendevano a rigare il mio viso. Cercai di asciugarle con le mani, ma più ne toglievo e più ne scendevano.
“Scusate… “ mormorai.
“E perché? Non vedi che anche noi piangiamo con te?” disse Francesco.
Ed era vero: i miei due compagni piangevano e capii dai loro volti che le loro erano lacrime di gioia, gioia per me.
“Le lacrime sono un dono di Dio” continuò Francesco. “Ognuna di esse lava e purifica la nostra anima.”
Restammo così per un po’, non so quanto, ma il tempo che bastava per tornare coi piedi su questa terra dopo esser stati in cielo davanti al trono dell’Altissimo.
“Ed ora” ruppe il silenzio Francesco “andiamo fratelli, abbiamo ancora tanta strada da fare!”

------------------------------------ 
(*) Nome antico dell’attuale Luino, sul lago Maggiore
(**) “Testamento di Francesco”, 10 (1226)

lunedì 15 luglio 2024

Lectio divina su Gv 3,30: crescere, ma per davvero!

R. Magritte, La ricerca dell'assoluto
Bisogna che egli cresca e che io diminuisca.” 
Nella storia del nostro rapporto con Dio, questo versetto del vangelo di Giovanni è, penso, molto importante.
Questa risposta che Giovanni il Battista da a un suo discepolo scandalizzato del fatto che Gesù stesse battezzando a pochi passi da lui dice molto.
Bisogna che egli cresca”. Non perché Gesù non è già chi deve essere (il Figlio nella Santissima Trinità divina), ma perché deve essere conosciuto sempre di più dagli uomini, deve crescere nella considerazione della gente.
Giovanni però non si ferma qui e aggiunge: “E io diminuisca.”
Come può diminuire qualcuno che ha una sua personalità, una sua notorietà? Di certo si può pensare ad una sua uscita di scena.
Ma qui il discorso del Battista potrebbe anche cambiare orizzonte, diventare più personale, intimo. Più vicino a noi.
Non si può aggiungere acqua ad un bicchiere già pieno.
Non può crescere la divinità in noi se non diminuisce la nostra umanità. O meglio: se la nostra umanità non si trasforma lentamente e perfettamente nella divinità. Paolo scrivendo agli Efesini dice: “Finché tutti arriviamo all'unità ... della piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomini compiuti, all'altezza della statura perfetta di Cristo”. (Ef 4,13)
Conoscere la divinità, Dio, l’Uno, l’Assoluto, è il compito che l’anima deve darsi se vuole progredire.
Non però una conoscenza teorica, puramente intellettuale, teologica.
Conoscere il Trascendente significa assorbire i suoi insegnamenti nella vita concreta; trasformare la propria vita a partire da ciò che egli insegna, da ciò che egli vuole.
Ricercare, imparare, mettere in pratica il volere di Dio è la strada per avere una vita quotidiana piena, vera, felice.
È una strada lunga, difficile, in cui incontreremo ostacoli messi lì dalla nostra stessa umanità, dal nostro io egoistico; ma anche dal mondo che ci circonda, che vede nel nostro cammino un pericolo per il suo dominio di morte.
E sicuramente non basterà questa sola vita per raggiungere questo perdersi dell’anima nostra in quella di Dio.
Il nostro sguardo dello spirito deve essere puntato al Fine Ultimo, a questa conoscenza divina che trasforma anche il nostro sguardo umano.
E, ancora, questo voler percorre la strada della trasformazione, del diminuire la nostra umanità per far crescere in noi la divinità, è anche ciò l’Assoluto aspetta per calarsi in noi, per guidarci, perché senza il suo intervento ogni sforzo è vano; perché, come scrive Giovanni: “senza di me non potete fare nulla”. (Gv 15,5)

sabato 13 luglio 2024

Lectio divina su Ger 2,5

"Così parla l'Eterno: Quale iniquità hanno trovato i vostri padri in me, 
che si sono allontanati da me, e sono andati dietro alla vanità, e sono diventati essi stessi vanità?”

Visto che tutti vogliono ‘prove scientifiche’ quando si parla di Dio e della spiritualità, cominciamo col dire che secondo Maslow (psicologo del secolo scorso) esiste una gerarchia di bisogni incondizionati, che sono utilizzati come basi sulle quali costruire apprendimenti e condizionamenti. Maslow creò la famosa “piramide”, in cui inserì quelli che per lui sono bisogni senza esaudire i quali l’uomo non può, umanamente e psicologicamente, vivere.
Esistono così bisogni primari, legati alla sopravvivenza; e bisogni secondari, legati alla sicurezza personale e sociale.
Praticamente solo assecondando questi bisogni l’uomo può crescere non solo fisicamente, ma anche psicologicamente e socialmente.
Col passare del tempo a questi primi 5 gradini ne furono aggiunti altri tre: l’estetica (ricerca di armonia e bellezza); l’autorealizzazione (moralità, creatività, accettazione); la trascendenza (necessità di andare oltre sé stessi, di sentirsi parte di una realtà divina).
Tutto questo per dire che la scienza dice che esiste un bisogno innato nell’uomo di cercare una propria strada che lo porti a sentirsi non solo autorealizzato (rispetto al suo essere puramente umano) ma anche pienamente realizzato. E questo è possibile solo ricercando un contatto con l’Altro, con Dio, l’Assoluto, il Trascendente, l’Uno Originario; chiamatelo come volete.
Come diceva lo stesso Maslow: “Quello che un uomo può essere, egli deve essere”.
Il versetto del libro di Geremia ci presenta, invece, una situazione diversa, di uomini che non hanno ricercato il Trascendente, Dio, ma hanno preferito andare dietro alla ‘vanità’, letteralmente: alla pienezza di sé. Quegli uomini pensavano che tutto si fermasse a loro stessi, al proprio corpo, ad una propria felicità passeggera, e hanno seguito altri esseri ‘vanitosi’, divenendo essi stessi una ‘vanità vivente’.
Quanti, oggi, vivono allo stesso modo? Non voglio essere pessimista, ma in base alla mia esperienza dovuta (ahime!) all’età posso dire che la stragrande maggioranza degli uomini del nostro tempo corrono dietro a vanità, ad altri uomini che cercano la vanità e ne propagandano l’itinerario da loro seguito per arrivarci. E gli uni e gli altri diventano una ‘vanità vivente’, cioè un esempio di come l’uomo non deve essere se vuole diventare pienamente uomo.
L’uomo ha bisogno di Dio per essere uomo e non solamente un animale un po’ più intelligente. E questo bisogno è innato in lui.
Se solo l’uomo si fermasse ogni tanto a riflettere su se stesso, sentirebbe in modo naturale in sé questa mancanza, questo distacco dalla propria Fonte, dal Fondo Originario da cui deriva.
E capirebbe, contestualmente, che materiale e spirituale sono interdipendenti e necessari l’uno all’altro, perché il cammino verso Dio è lungo ma non impossibile.
Basta volerlo ogni volta che ne sentiamo il bisogno.

Un uomo aveva un campo...

C’era un uomo che aveva un campo. Il campo era rigoglioso e tutto quello che l’uomo piantava cresceva a dismisura, perché l’uomo ne aveva mo...